Cinema e Teatro per l’ex pattinatrice:

“Il palco è come un acceleratore di particelle: tutto accade davvero, anche se in un contesto simbolico”

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L’attrice Caterina Gabanella torna sul grande schermo come coprotagonista del film R.I.P., diretto da Alessandro D’Ambrosi e Santa De Santis, in uscita nelle sale italiane dal 23 ottobre.

Il film sarà presentato in anteprima al Festival “Alice nella città”, con una proiezione speciale il 20 ottobre al Cinema Adriano di Roma.

Il film è prodotto da NVP Studios – Gruppo NVP S.p.A. e distribuito da Filmclub. La colonna sonora è firmata da Daniele Silvestri con il collettivo Klangore Factory, che arricchisce il racconto con sonorità originali e suggestive.

Abbiamo intervistato Caterina in occasione di questo debutto.

Caterina ci parlerà anche dello spettacolo teatrale con cui sarà in tour questa stagione.

1. Caterina, ti sei definita: “praticamente un musical ambulante fin da bambina”. Cioè?

Nel senso che non riuscivo a stare ferma. Correvo, ballavo, urlavo, mi arrampicavo dappertutto e canticchiavo mentre lo facevo. Strabordavo, rompevo le cose. La mia famiglia era abituata a vedermi trasformare il salotto in una palestra – o forse, mi dico oggi, in un palcoscenico. Era il mio modo di stare al mondo, di tradurre le emozioni in movimento. Non sapevo ancora che si chiamasse “teatro”, ma sapevo che lì dentro mi sentivo viva.

2. So che prima di scegliere il percorso come attrice, eri una pattinatrice che ha vinto il bronzo ai mondiali; poi hai mollato tutto e cambiato vita. Cosa ti ha fatto scattare questa molla?

Non terza ai mondiali, terza in Italia, nella categoria più alta. Ai mondiali potevo arrivare nelle prime dieci, ma ho fatto una gara mediocre e sono arrivata sedicesima. Però ho avuto ottimi piazzamenti in gare internazionali e coppe del mondo, spesso sul podio.

Lo sport per me era una necessità: sudare per raggiungere un obiettivo è sempre stato divertente. Mi ha insegnato che con disciplina e costanza si può ottenere moltissimo, e che la sfida è sempre e solo con se stessi. Il pattinaggio è stato un gioco meraviglioso, ma a un certo punto non mi bastava più. Sentivo di vivere sempre la stessa coreografia, anche fuori dalla pista. Mi mancava la relazione. Volevo esplorare le storie, capire cosa spinge una persona a cercare, a cadere, a rialzarsi. Avevo bisogno di crescere emotivamente e di capire che donna ero.

Quando ho smesso di pattinare ho avuto paura – quella paura si è trasformata prima in vuoto, poi in energia per il cambiamento.

3. Quindi, hai attraversato anche lo psicodramma… Come ritieni che il “qui ed ora” del Teatro possa essere di aiuto nel benessere di una persona, sia attore che pubblico?

Lo psicodramma è stato una rivelazione. È lì che ho capito che il palco è come un acceleratore di particelle: tutto accade davvero, anche se in un contesto simbolico. Il teatro non è solo rappresentazione, ma accadimento. La verità del “qui ed ora” permette un incontro reale tra corpi, respiri e possibilità. Che tu sia attore o spettatore, vieni toccato in modo diretto – è come se, per un attimo, la vita ti parlasse senza filtri. È un modo per ampliare la coscienza.

4. Come ti sei preparata per questo grande salto senza pattini?

Non c’è stato un metodo: è stata una richiesta del cuore. La recitazione non è lineare come lo sport. Certo, si studia, si prova, si cade e ci si rialza, ma l’esecuzione perfetta non basta. Nell’arte dell’attore, il magnetismo e la bellezza si nascondono nell’imprevedibile, nell’inciampo, nell’errore.

Ho studiato recitazione a Torino, dove ho avuto una grande insegnante, Cristina Pezzoli, poi ho avuto la fortuna di incontrare un mentore straordinario come Paolo Rossi. Pian piano sto capendo chi sono e sto trovando il mio linguaggio.

Il salto non è stato solo professionale, ma umano: prima stavo in equilibrio sulle lame, ora tra le emozioni.

5. Raccontaci il tuo percorso professionale fino a qui.

Un percorso un po’ strambo, direi. Ho iniziato durante la scuola di psicoterapia, su consiglio del mio tutor. Uscendo dal tirocinio ho trovato un volantino per un corso amatoriale del Teatro Baretti di Torino e mi ci sono buttata. È stato un imprinting meraviglioso: il gruppo era eterogeneo e divertentissimo, e gli insegnanti, pur trattandosi di un corso non professionale, erano attori di altissimo livello.

Ho iniziato tardi, ma ho avuto fortuna da subito. Ero troppo grande per le accademie e proprio a Torino hanno aperto la Shakespeare School senza limite di età, diretta da Jurij Ferrini, con un corollario di altri  professionisti straordinari come Cristina Pezzoli, Valerio Binasco, Gabriele Vacis.

A fine scuola sono stata scelta per due piccole produzioni teatrali, ma per mantenermi facevo pubblicità; ne ho girate tante, grazie alla mia prima agente, Laura De Ambrosi. Poi sono arrivati i cortometraggi.

Sette anni fa ho vinto una borsa per il laboratorio “La Valigia dell’Attore”, dove ho incontrato Paolo Rossi. Alla fine del laboratorio mi ha chiesto di lavorare con lui, e da allora non ho più smesso.

Con Paolo ho fatto quattro spettacoli; attualmente siamo in tournée con Operaccia Satirica e stiamo preparando uno spettacolo su Stefano Benni, in arrivo nel 2026.

Negli ultimi anni è arrivato anche il cinema, con Nina dei Lupi e Tornando a Est di Antonio Pisu, Zweitland di Michael Kofler, e ora RIP di Santa De Santis e Alessandro De Ambrosi, in uscita al cinema.

In questo periodo sta girando nei festival Una Voce di Andrea Andolina, per cui ho ricevuto diversi premi come miglior attrice.

Credo di essere entrata in un meraviglioso processo creativo, e non vedo l’ora di vedere cosa arriverà…

6. Il film di cui stiamo parlando è una “ghost story” ironica e poetica… Qual è il tuo ruolo?

Interpreto Lara, una deejay depressa, nipote di un grande artista e figlia di una borghesia assente. È un personaggio inizialmente arrabbiato, in lutto, ma in viaggio. Le sue emozioni camminano accanto a quelle del protagonista.

Lara è l’elemento terreno del film, ma grazie al suo momento di fragilità e alle “stranezze” di Leonardo, qualcosa in lei si scioglie. Indirettamente, ciò che i fantasmi chiedono a Leonardo la portano a una nuova vita: diventano l’occasione per guardare il mondo con nuovi occhi, quelli dell’amore.

7. Sei coprotagonista. Come hai costruito il personaggio?

Parlando molto con i registi. Era la loro opera prima, ma avevano le idee chiarissime. Mi sono lasciata condurre, seguendo la loro musica.

Ho sposato l’outfit di Lara e, una volta trovato il suo corpo, ho costruito una backstory: la sua famiglia, il rapporto col nonno, le passioni, i libri preferiti. Ho scritto oltre il copione per riempire il mio serbatoio emotivo. Poi mi sono volontariamente dimenticata tutto, e sono rimasta nel “qui ed ora” del set.

8. Qual è la tua personale riflessione sul tema della morte, un tabù per la cultura popolare?

Credo che la morte sia il più grande mistero, insieme alla vita. Dialogarci, tenerla presente, accogliere la paura dell’ignoto è una grande opportunità per vivere appieno.

Nella nostra società la morte è trattata con troppa paura. Morte e malattia sono viste come nemiche, ma io credo andrebbero accolte con più consapevolezza. È un blocco culturale dell’Occidente: in India, ad esempio, i funerali sono feste colorate.

L’arte, il teatro e il cinema hanno la responsabilità di restituire alla morte la sua funzione poetica. RIP lo fa con ironia ed eleganza.

La morte spiega, concede, e soprattutto spinge a vivere di più.

9. Parallelamente all’uscita cinematografica, sarai sul palco con Paolo Rossi in Operaccia Satirica – Onora i padri e paga la psicologa. Ce ne vuoi parlare?

È uno spettacolo terapeutico, dove comicità, memoria e improvvisazione si intrecciano in una seduta psicoterapeutica senza quarta parete.

Psicanalizzare un comico come Paolo Rossi diventa un rito collettivo che tocca temi universali: politica, vecchiaia, padri, fede, guerra.

Io interpreto la psicologa che cura il suo paziente… iniettandogli poesia. Poi, ovviamente, con Paolo niente va come previsto – ed è questa la parte più divertente.

Ogni sera è diversa, una sfida di ascolto ed equilibrio tra noi e i musicisti, Emanuele Dell’Aquila e Alex Orciari. Il teatro diventa una seduta aperto tra noi e il pubblico.

10. In conclusione, cosa vorrai fare “da grande”?

Innanzitutto spero di non sentirmi mai “grande”, per potermi porre questa domanda fino all’ultimo giorno.

Spero che la mia vita continui in questo ambito, e che resti stimolante come lo è stata finora.

Mi auguro di restare in un processo di ricerca continua, di comprendere sempre meglio l’essere umano – vestendone mille panni.

E un giorno, magari, sarò pronta per scrivere e dirigere. Un po’, per gioco, lo sto già facendo…